Gesti della Memoria

PASQUALE RESTUCCIA PER ROMBIOLO: PITTURA E PROGETTUALITÀ

Nei nostri tempi il ventaglio degli strumenti atti a generare e sviluppare immagini si è enormemente dilatato, condizionando in larga misura il fluire della vita quotidiana. Ormai menzionare i mass media, la televisione, la comunicazione telematica, internet e quant’altro risulterebbe cosa del tutto ovvia e scontata, se non addirittura banale. Eppure tali mezzi agiscono sui rapporti sociali e articolano i termini della convivenza umana. I conseguenti vantaggi appaiono innegabili e quasi nessuno vorrebbe o potrebbe fare a meno delle comodità offerte dalle nuove tecnologie. Per l’uomo moderno la capacità di propagare contenuti è di gran lunga più ampia che in passato. Tutto scorre. La fiction, la pubblicità, la cronaca, lo spettacolo, la mondanità e la vita politica si consumano davanti ai nostri occhi con estrema velocità, quasi nel tempo di uno schioccare di dita.

In un mondo siffatto quale spazio rimane per esprimere una tecnica tradizionale e del tutto manuale come la pittura? Se questa viene intesa nel senso dello svago e del piacere dilettantistico i problemi non sussistono, perché sarà sempre possibile dipingere piuttosto che collezionare farfalle o giocare a carte per un autoreferenziale solitario. Però i problemi iniziano quando la pittura viene scelta come strumento privilegiato per sostenere un alto livello di comunicazione. In un contesto utilitaristico, come quello odierno, il problema risiede nel riconoscere la ragion d’essere e il senso compiuto del fare pittura.
Nei secoli passati essere pittore equivaleva a svolgere un mestiere, talvolta redditizio e tal’altra no, così come capitava per numerose altre professioni. In Italia, fino alla metà del Cinquecento, il pittore produceva quasi esclusivamente dietro specifica committenza, spesso adeguandosi in larga misura alle vincolanti condizioni del cliente. Solo a partire dalla seconda parte del XVI secolo si affacciò nella penisola l’uso - già in voga nei paesi fiamminghi – di commercializzare opere non espressamente commissionate. Tale mercato però rimase a lungo minoritario rispetto alla notevole produzione di manufatti, concepiti dietro puntuali istruzioni dei richiedenti. Solo tra XIX e XX secolo il mercato dell’arte si trasforma in maniera sostanziale, ridimensionando drasticamente il ruolo della committenza diretta e favorendo in misura sempre maggiore l’iniziativa del mercante d’arte. Negli ultimi decenni le opere pittoriche e plastiche - così come anche altre manifestazioni dell’agire umano - hanno assunto il valore di banalissimi oggetti dal carattere squisitamente merceologico. Questa situazione spesso non ha solo compromesso lo standard qualitativo, ma ha anche permesso il dilagare di processi mistificatori. Così oggi qualsiasi cosa potrebbe essere spacciata per opera d’arte, senza alcuna reale possibilità di smentita. In sostanza è il mercato - nemmeno il sedicente artista - a decidere cosa può essere definito arte e ad assegnare il relativo collocamento nella scala dei valori pecuniari.

Il mercato può anche continuare a ragionare in siffatti termini, ma non deve avere la presunzione di stabilire con i propri strumenti il metro valutativo delle qualità operative individuali. Per ovviare agli squilibri odiernamente riscontrabili nel mondo della pittura sarebbe necessario tornare alle antiche e sane meccaniche di committenza, laddove visione del pittore e intrinseca esigenza del richiedente giungono a formulare un complessivo progetto culturale, magari condensato in poche immagini, in un unico supporto, in un solo spazio. Spesso la magia interna di tante testimonianze figurative del passato nasce dall’urgenza di un robusto programma d’intenti, formulato in modo congiunto dal committente, dall’artefice ed eventualmente da un mediatore competente nel campo della cultura umanistica. In definitiva un lavoro quasi di équipe, così come oggi si richiede nelle migliori strutture preposte alla ricerca scientifica. L’accostamento non risulta improprio, perché in passato una qualsiasi impresa pittorica non era il frutto del capriccio personale dell’artefice. Gli affreschi e le pale d’altare venivano eseguite perché esisteva un committente disposto a finanziare i manufatti. Qualunque altra via era esclusa. Soltanto oggi nelle arti predomina il “ghiribizzo” individuale e l’autoreferenzialità assoluta, segnali di un malinteso senso della democrazia, avvertito non come partecipazione alla cosa pubblica, ma come irrefrenabile esigenza di autoaffermazione. Conseguenza di tale spinta individualista sono il caos, come anche la perdita di senso, di riferimenti e di valori misurabili.

Nel secolo scorso non sono mancati importanti contributi, tendenti a sostenere i principi delle tradizionali meccaniche di committenza. Basti pensare al fortunato libro di Martin Wackernagel, storico dell’arte svizzero, tradotto in Italia con il titolo Il mondo degli artisti nel Rinascimento fiorentino. L’autore con il suo testo si proponeva di fornire un modello di mercato artistico, basato sull’attività delle botteghe e su un’ampia varietà di committenti, disposti ad acquisire manufatti di pregio. Wackernagel si era accorto dell’evidente distacco intercorso, nel suo tempo, tra artisti e pubblico, come anche della eccessiva e gratuita autonomia sovente manifestata nelle attività artistiche. Lo studioso non ebbe certo modo di cambiare il corso degli eventi, ma forse non immaginava lontanamente quale destino sarebbe toccato al mondo dell’arte durante l’intera seconda metà del Novecento.
Così perché dovremmo nei nostri anni accogliere il rivelarsi della pittura? Per quale recondita ragione dovremmo misurarci con una tela dipinta? Forse per ricevere un facile e banale colpo basso, in grado di solleticare le nostre più intime corde emotive?  Forse per identificarci in un ristretto gruppo di privilegiati, capaci di intendere al primo colpo d’occhio la muta materia pittorica? O forse sarà necessario dare ragione ai tanti “contemporanei”, che, in nome di un nomadismo globalizzato, reputano la pittura cosa desueta e in fin dei conti poco degna di essere tra le frecce nella faretra dell’artista. Stando così la situazione finiremmo per convincerci dell’inutilità della pittura e francamente apparirà più appetibile un prodotto cinematografico di medio livello rispetto al desolante monologo dell’artista contemporaneo. Pubblico rumoroso da una parte e artisti invasati dall’altra: questa in breve la sconfortante prospettiva.

Urge quindi la ricomposizione di un circolo virtuoso, mosso da intenti comuni e da progetti condivisi, che non soddisfino esclusivamente le pulsioni dell’artefice, ma traducano nel medesimo tempo l’identità e le ferme consapevolezze della committenza. Tale circostanza acquisisce maggiore valore nel caso della commissione pubblica, perché la richiesta agisce in nome di valori e sensibilità collettive, nel segno di un radicamento nello spazio storico-culturale del territorio.

Oggi le committenze pubbliche nel campo della pittura sono piuttosto rare e comunque non rispondono a dinamiche di sistema, come avveniva in decenni passati. Ecco allora che l’incarico affidato dal comune di Rombiolo a Pasquale Restuccia, consistente nella realizzazione pittorica di una grande tela destinata alla sala consiliare del Palazzo Municipale, dimostra come sia ancora possibile conciliare la ragion d’essere della pittura e le legittime esigenze d’identità di una pur piccola comunità. Nocciolo della questione era, sin dal momento della commissione, quello di addensare in un’unica soluzione visiva la secolare cultura, fondata sul proficuo lavoro della terra e sull’appagante produzione manifatturiera. La sfida che si imponeva al pittore non era cosa di poco conto. Si trattava di pervenire alla maggiore efficacia sul piano dell’immagine con la migliore sintesi possibile, senza banalizzare i termini in oggetto con una mera rappresentazione didascalica o prolissamente narrativa. La tradizione offriva a profusione modelli sulle attività umane - basti pensare agli innumerevoli cicli medievali dedicati ai lavori dell’uomo nell’arco dei dodici mesi, come quelli plastici del battistero di Parma o della basilica di San Marco a Venezia – e soluzioni iconografiche di indubbio interesse, ma era opportuno approdare ad una proposta figurativa, capace di esprimere il remoto e congenito carattere della vocazione agricola in terra di Rombiolo. Inoltre era necessario dispiegare le immagini su una vasta superficie, entrando in sintonia con la specificità morfologica del contenitore architettonico destinato ad ospitare la tela. Per la verità l’idea originale prevedeva un nucleo centrale da cui si sarebbe dispiegato un fregio superiore, con la funzione di sviluppare l’impianto decorativo lungo il perimetro dell’aula consiliare. Successivamente il progetto pittorico è stato limitato al solo pannello, da collocarsi sulla curvilinea parete alle spalle dei banchi di giunta. Nonostante tutto il fregio, inizialmente pensato, potrebbe ancora adeguatamente inserirsi e coerentemente completare sul piano distributivo quanto in effetti realizzato.

Ma attraverso quale percorso Pasquale Restuccia è giunto alla completa epifania del testo pittorico? Ricordo bene i suoi primi studi, concepiti per identificare una struttura compositiva idonea, per trovare le adeguate direttrici di profondità spaziale e per conseguire la migliore distribuzione dei piani. Alcuni di quei segni, a matita o a penna su carta, in apparenza sembravano non avere alcun nesso con la necessaria risultanza di immagini, saldamente costituite e dominanti lo spazio senza alcun equivoco. Piuttosto suggerivano l’erronea impressione di veloci appunti non figurativi. Dietro a quelle scansioni geometrizzanti si giocava in realtà l’intera questione, relativa alla strutturale articolazione dell’opera. Il pittore però non seguiva un proprio esclusivo capriccio, non inventava nulla di nuovo senza aver prima fatto i conti con la tradizione, ovvero nel caso specifico con la storia secolare e più nobile della pittura. Se i problemi di maggiore urgenza derivavano dalla necessità di dover affrontare grandi dimensioni, perché non studiare i grandi artefici del passato che si erano misurati più o meno con le stesse incognite? Ecco allora la riflessione su Tintoretto e sulla sua Raccolta della manna nella veneziana chiesa di San Giorgio Maggiore. L’obiettivo era semplicemente quello di indagare l’interna meccanica, che consentì al Tintoretto di articolare spazi e scandire piani di profondità nel rispetto delle ampie superfici. Nulla di più. Non si trattava di copiare qualcosa o di trarre spunti puntuali in termini d’immagine. In realtà il pittore compiva un percorso consueto alle tradizioni dei grandi maestri di un tempo, caratterizzato dallo studio sistematico, in vista di una grande impresa figurativa.

Uno degli aspetti più accattivanti delle pittura di Pasquale Restuccia risiede proprio nella rigorosa progettualità, interna e preliminare ai dipinti concretizzati su tela. Il suo lavoro non costituisce mai l’emanazione semplice di un sentimento o di una condizione psichica. Niente di più estraneo alla sua metodica. Piuttosto il pittore segue un percorso lungamente meditato, in cui elaborazione culturale e attuazione manuale procedono parallele nel determinare modalità e finalità. Il piano viene predisposto e procede valutando le possibilità offerte dal sito a cui è destinata l’opera, le aspettative della committenza e del contesto locale, la radicata e multiforme cultura del luogo, la vocazione storica del territorio di pertinenza, le tradizioni devozionali autoctone – ragion d’essere di quel raffinato inserto, costituito dal ricamo ad intaglio evocante l’immagine di un arcaico San Michele Arcangelo, alle prese con un demone del tutto singolare – e le specifiche forme cultuali. Di suo il pittore inserisce l’alta padronanza dei mezzi tecnico-esecutivi e il proprio bagaglio interpretativo, che necessariamente deve fondare le basi su una solida e sostanziata visione del mondo.

Il progetto poi prevede un’articolata indagine, che dagli aspetti generali man mano scende ai particolari, per poi ricomporli nell’assieme. La generosa attenzione dell’artefice si è quindi rivolta all’elaborazione di singole figure o oggetti, utilizzando lo strumento conoscitivo del disegno, indispensabile per comprendere la reale natura di corpi ed elementi dislocati nello spazio. I primi studi generali mostravano l’individuazione di figure, colte in gesti e attitudini varie, quasi a voler suggerire una dinamica e una tensione interni. Poi tutto è stato regolato da fondanti scelte di impaginazione. Il lavoro dell’uomo e della donna viene inteso come valore eterno, sempre necessario. In poche parole senza tempo, o almeno fuori dallo scorrere della temporalità storica. I gesti stessi diventano immutabili e l’immagine deve palesare, quasi ostentando, la ritualità dell’agire. Da qui la soluzione iconica adottata dal pittore e l’apparente percezione di dinamica bloccata, che si coglie da un primo approccio del testo pittorico. I personaggi dispiegati nei primi piani rinviano ad una umanità intesa come categoria soprastorica, o semmai quale memoria di una recondita età dell’oro, apportatrice delle più nobili consuetudini e delle più consone usanze, comuni all’uomo mediterraneo di tutti i tempi. Quelle figure nude, pur nella diversità delle attitudini, richiamano alla mente celebri ignudi, collocati sui piani più distanti, riscontrabili in alcuni dipinti intrisi di cultura neoplatonica – basti pensare alla Madonna con il Bambino di Luca Signorellidella Galleria degli Uffizi a Firenze e al cosiddetto Tondo Doni michelangiolesco nel medesimo museo – dove la lontananza allude ad un’età remota e irraggiungibile. Però nella grande tela di Pasquale Restuccia l’aureo tempo prende il sopravvento, si impone come soggetto ineludibile, occupa finanche il primo piano e relega l’uomo della storia – il corteo di personaggi in lontananza, che vuol rievocare le lotte contadine nel secondo dopoguerra – a spazi subalterni.

Il carattere iconico dell’opera si accompagna ad una palese sobrietà dei mezzi pittorici impiegati, con la conseguente consapevole rinuncia di qualsiasi esteriore impronta di sensualità nel costituire i corpi. Certamente a tale risultato avrà contribuito la conoscenza, negli anni maturata dall’artefice, della essenziale pittura di Puvis de Chavannes. Però solo attraverso la calibratura degli elementi strutturali, attivata con la prolungata indagine grafica, il pittore è pervenuto al maggiore equilibrio delle parti con il massimo della sobrietà formale possibile e accettabile.

A chi ha conosciuto in altre circostanze la pittura di Pasquale Restuccia potrebbe palesarsi un’apparente diversità nella risultanza pittorica, ma in realtà poco è cambiato rispetto alla produzione precedente – mi riferisco a dipinti allegorico mitologici, paesaggi e quant’altro – o comunque degli ultimi anni, se non forse una maggiore attenzione per l’intrinseca luminosità della materia pittorica, assecondando però una tendenza in continuo atto nella più recente stagione figurativa del pittore. Per il resto, come ho già sostenuto in altra sede presentando la morfologica essenza di alcuni suoi paesaggi, il rinvio a una dimensione atemporale - connotata da immagini archetipe e significanti – costituisce un dato peculiare nell’opera di Restuccia.
Quel che invece si rivela in tutta la sua consistenza è la dinamica progettuale, evidenziata in dettaglio nel presente catalogo. Si impone a questo punto una dovuta riflessione sul ruolo che il progetto deve assumere nel campo della prassi figurativa. Viene da pensare, di fronte all’ampia superficie dispiegata, alle titaniche imprese compiute da artisti del passato.  Basti ricordare la celeberrima Zattera della Medusa di Théodore Gericault, opera preceduta ed accompagnata da una moltitudine di studi di piccolo formato, ora utili per ricostruire la genesi strutturale di una pietra miliare per la storia dell’arte europea. Il progetto oggi, come un tempo, deve saper veicolare tutte le istanze - precedentemente menzionate - espresse dalla committenza, dal contesto di appartenenza e dal medesimo artefice. L’opera finale costituisce il conseguente approdo di una lunga ricerca, tendente a risolvere con sempre maggiore puntualità problemi di ordine formale, iconografico e comunicativo. Nel caso di Pasquale Restuccia l’obiettivo essenziale era rappresentato dalla realizzazione di una grande superficie dipinta, del tutto autosufficiente nel soddisfare le specifiche esigenze di immagine della comunità di Rombiolo. Il lavoro del pittore andava però preservato nella sua interezza e complessità, recuperando gli strumenti che avevano consentito un’elaborazione tutt’altro che semplice. Pur nel breve tempo di un’esposizione era necessario garantire alla pubblica fruizione la conoscenza dei percorsi ideativi ed escutivi. Così è nata l’idea di presentare la vasta tela attraverso un catalogo, contenente in sequenza schizzi, studi e disegni utilizzati in fase realizzativa. Diviene così possibile risalire dal manufatto compiuto all’idea di base, attraverso le non poche alterazioni, le modifiche o i ripensamenti. Il progetto complessivo svela, in tal modo, tutti i suoi retroscena e rivela l’autentica identità culturale dell’artefice.

In un certo senso la grande tela elaborata da Pasquale Restuccia potrebbe costituire un significativo precedente. Difatti negli ultimi tempi le esposizioni d’arte – se così è necessario denominarle per intendersi – soffrono spesso di una certa mania di grandezza, laddove ambiziosi e pretenziosi allestimenti, ingigantiti oltre il limite tollerabile, costituiscono causa di fraintendimenti e di confusione complessiva. L’idea di concentrare l’evento espositivo su un unico percorso ideativo, sfociante in una sola ma articolata risultanza figurativa, potrebbe rappresentare l’occasione per formulare progetti chiari, efficaci e di più decisivo impatto. La qualità della proposta soppianterebbe così le disorientanti soluzioni in termini quantitativi, spesso esibite nell’ambito di manifestazioni settoriali dal carattere pubblico o meno.    
L’opera in questione si pone senz’altro come un tassello estremamente importante nella carriera pittorica di Pasquale Restuccia. Non mancano al suo attivo realizzazioni su vasta scala, ma nulla di precedente appare lontanamente paragonabile alla volontà, espressa nell’attuale occasione, di pervenire alla sostanziale formulazione di un’immagine-icona, che possa rappresentare da qui ai prossimi tempi la specificità della comunità di Rombiolo, in un terreno dove storia, cultura e tradizione si fondono nella dimensione più consona al mito.

David Frapiccini


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