PASQUALE
RESTUCCIA PER ROMBIOLO: PITTURA E
PROGETTUALITÀ
In un mondo siffatto quale spazio rimane per esprimere una tecnica
tradizionale e del tutto manuale come la pittura? Se questa viene
intesa nel senso dello svago e del piacere dilettantistico i problemi
non sussistono, perché sarà sempre possibile dipingere
piuttosto che collezionare farfalle o giocare a carte per un
autoreferenziale solitario. Però i problemi iniziano quando la
pittura viene scelta come strumento privilegiato per sostenere un alto
livello di comunicazione. In un contesto utilitaristico, come quello
odierno, il problema risiede nel riconoscere la ragion d’essere e il
senso compiuto del fare pittura.
Nei secoli passati essere pittore equivaleva a svolgere un mestiere,
talvolta redditizio e tal’altra no, così come capitava per
numerose altre professioni. In Italia, fino alla metà del
Cinquecento, il pittore produceva quasi esclusivamente dietro specifica
committenza, spesso adeguandosi in larga misura alle vincolanti
condizioni del cliente. Solo a partire dalla seconda parte del XVI
secolo si affacciò nella penisola l’uso - già in voga nei
paesi fiamminghi – di commercializzare opere non espressamente
commissionate. Tale mercato però rimase a lungo minoritario
rispetto alla notevole produzione di manufatti, concepiti dietro
puntuali istruzioni dei richiedenti. Solo tra XIX e XX secolo il
mercato dell’arte si trasforma in maniera sostanziale, ridimensionando
drasticamente il ruolo della committenza diretta e favorendo in misura
sempre maggiore l’iniziativa del mercante d’arte. Negli ultimi decenni
le opere pittoriche e plastiche - così come anche altre
manifestazioni dell’agire umano - hanno assunto il valore di
banalissimi oggetti dal carattere squisitamente merceologico. Questa
situazione spesso non ha solo compromesso lo standard qualitativo, ma
ha anche permesso il dilagare di processi mistificatori. Così
oggi qualsiasi cosa potrebbe essere spacciata per opera d’arte, senza
alcuna reale possibilità di smentita. In sostanza è il
mercato - nemmeno il sedicente artista - a decidere cosa può
essere definito arte e ad assegnare il relativo collocamento nella
scala dei valori pecuniari.
Il mercato può anche continuare a ragionare in siffatti
termini,
ma non deve avere la presunzione di stabilire con i propri strumenti il
metro valutativo delle qualità operative individuali. Per
ovviare agli squilibri odiernamente riscontrabili nel mondo della
pittura sarebbe necessario tornare alle antiche e sane meccaniche di
committenza, laddove visione del pittore e intrinseca esigenza del
richiedente giungono a formulare un complessivo progetto culturale,
magari condensato in poche immagini, in un unico supporto, in un solo
spazio. Spesso la magia interna di tante testimonianze figurative del
passato nasce dall’urgenza di un robusto programma d’intenti, formulato
in modo congiunto dal committente, dall’artefice ed eventualmente da un
mediatore competente nel campo della cultura umanistica. In definitiva
un lavoro quasi di équipe, così come oggi si
richiede nelle migliori strutture preposte alla ricerca scientifica.
L’accostamento non risulta improprio, perché in passato una
qualsiasi impresa pittorica non era il frutto del capriccio personale
dell’artefice. Gli affreschi e le pale d’altare venivano eseguite
perché esisteva un committente disposto a finanziare i
manufatti. Qualunque altra via era esclusa. Soltanto oggi nelle arti
predomina il “ghiribizzo” individuale e l’autoreferenzialità
assoluta, segnali di un malinteso senso della democrazia, avvertito non
come partecipazione alla cosa pubblica, ma come irrefrenabile esigenza
di autoaffermazione. Conseguenza di tale spinta individualista sono il
caos, come anche la perdita di senso, di riferimenti e di valori
misurabili.
Nel secolo scorso non sono mancati importanti contributi, tendenti a
sostenere i principi delle tradizionali meccaniche di committenza.
Basti pensare al fortunato libro di Martin Wackernagel, storico
dell’arte svizzero, tradotto in Italia con il titolo Il mondo
degli artisti nel Rinascimento fiorentino. L’autore con il suo
testo si proponeva di fornire un modello di mercato artistico, basato
sull’attività delle botteghe e su un’ampia varietà di
committenti, disposti ad acquisire manufatti di pregio. Wackernagel si
era accorto dell’evidente distacco intercorso, nel suo tempo, tra
artisti e pubblico, come anche della eccessiva e gratuita autonomia
sovente manifestata nelle attività artistiche. Lo studioso non
ebbe certo modo di cambiare il corso degli eventi, ma forse non
immaginava lontanamente quale destino sarebbe toccato al mondo
dell’arte durante l’intera seconda metà del Novecento.
Così perché dovremmo nei nostri anni accogliere il
rivelarsi della pittura? Per quale recondita ragione dovremmo misurarci
con una tela dipinta? Forse per ricevere un facile e banale colpo
basso, in grado di solleticare le nostre più intime corde
emotive? Forse per identificarci in un ristretto gruppo di
privilegiati, capaci di intendere al primo colpo d’occhio la muta
materia pittorica? O forse sarà necessario dare ragione ai tanti
“contemporanei”, che, in nome di un nomadismo globalizzato, reputano la
pittura cosa desueta e in fin dei conti poco degna di essere tra le
frecce nella faretra dell’artista. Stando così la situazione
finiremmo per convincerci dell’inutilità della pittura e
francamente apparirà più appetibile un prodotto
cinematografico di medio livello rispetto al desolante monologo
dell’artista contemporaneo. Pubblico rumoroso da una parte e artisti
invasati dall’altra: questa in breve la sconfortante prospettiva.
Urge quindi la ricomposizione di un circolo virtuoso, mosso da
intenti
comuni e da progetti condivisi, che non soddisfino esclusivamente le
pulsioni dell’artefice, ma traducano nel medesimo tempo
l’identità e le ferme consapevolezze della committenza. Tale
circostanza acquisisce maggiore valore nel caso della commissione
pubblica, perché la richiesta agisce in nome di valori e
sensibilità collettive, nel segno di un radicamento nello spazio
storico-culturale del territorio.
Oggi le committenze pubbliche nel campo della pittura sono piuttosto
rare e comunque non rispondono a dinamiche di sistema, come avveniva in
decenni passati. Ecco allora che l’incarico affidato dal comune di
Rombiolo a Pasquale Restuccia, consistente nella realizzazione
pittorica di una grande tela destinata alla sala consiliare del Palazzo
Municipale, dimostra come sia ancora possibile conciliare la ragion
d’essere della pittura e le legittime esigenze d’identità di una
pur piccola comunità. Nocciolo della questione era, sin dal
momento della commissione, quello di addensare in un’unica soluzione
visiva la secolare cultura, fondata sul proficuo lavoro della terra e
sull’appagante produzione manifatturiera. La sfida che si imponeva al
pittore non era cosa di poco conto. Si trattava di pervenire alla
maggiore efficacia sul piano dell’immagine con la migliore sintesi
possibile, senza banalizzare i termini in oggetto con una mera
rappresentazione didascalica o prolissamente narrativa. La tradizione
offriva a profusione modelli sulle attività umane - basti
pensare agli innumerevoli cicli medievali dedicati ai lavori dell’uomo
nell’arco dei dodici mesi, come quelli plastici del battistero di Parma
o della basilica di San Marco a Venezia – e soluzioni iconografiche di
indubbio interesse, ma era opportuno approdare ad una proposta
figurativa, capace di esprimere il remoto e congenito carattere della
vocazione agricola in terra di Rombiolo. Inoltre era necessario
dispiegare le immagini su una vasta superficie, entrando in sintonia
con la specificità morfologica del contenitore architettonico
destinato ad ospitare la tela. Per la verità l’idea originale
prevedeva un nucleo centrale da cui si sarebbe dispiegato un fregio
superiore, con la funzione di sviluppare l’impianto decorativo lungo il
perimetro dell’aula consiliare. Successivamente il progetto pittorico
è stato limitato al solo pannello, da collocarsi sulla
curvilinea parete alle spalle dei banchi di giunta. Nonostante tutto il
fregio, inizialmente pensato, potrebbe ancora adeguatamente inserirsi e
coerentemente completare sul piano distributivo quanto in effetti
realizzato.
Ma attraverso quale percorso Pasquale Restuccia è giunto alla
completa epifania del testo pittorico? Ricordo bene i suoi primi studi,
concepiti per identificare una struttura compositiva idonea, per
trovare le adeguate direttrici di profondità spaziale e per
conseguire la migliore distribuzione dei piani. Alcuni di quei segni, a
matita o a penna su carta, in apparenza sembravano non avere alcun
nesso con la necessaria risultanza di immagini, saldamente costituite e
dominanti lo spazio senza alcun equivoco. Piuttosto suggerivano
l’erronea impressione di veloci appunti non figurativi. Dietro a quelle
scansioni geometrizzanti si giocava in realtà l’intera
questione, relativa alla strutturale articolazione dell’opera. Il
pittore però non seguiva un proprio esclusivo capriccio, non
inventava nulla di nuovo senza aver prima fatto i conti con la
tradizione, ovvero nel caso specifico con la storia secolare e
più nobile della pittura. Se i problemi di maggiore urgenza
derivavano dalla necessità di dover affrontare grandi
dimensioni, perché non studiare i grandi artefici del passato
che si erano misurati più o meno con le stesse incognite? Ecco
allora la riflessione su Tintoretto e sulla sua Raccolta della
manna nella veneziana chiesa di San Giorgio Maggiore. L’obiettivo
era semplicemente quello di indagare l’interna meccanica, che
consentì al Tintoretto di articolare spazi e scandire piani di
profondità nel rispetto delle ampie superfici. Nulla di
più. Non si trattava di copiare qualcosa o di trarre spunti
puntuali in termini d’immagine. In realtà il pittore compiva un
percorso consueto alle tradizioni dei grandi maestri di un tempo,
caratterizzato dallo studio sistematico, in vista di una grande impresa
figurativa.
Uno degli aspetti più accattivanti delle pittura di Pasquale
Restuccia risiede proprio nella rigorosa progettualità, interna
e preliminare ai dipinti concretizzati su tela. Il suo lavoro non
costituisce mai l’emanazione semplice di un sentimento o di una
condizione psichica. Niente di più estraneo alla sua metodica.
Piuttosto il pittore segue un percorso lungamente meditato, in cui
elaborazione culturale e attuazione manuale procedono parallele nel
determinare modalità e finalità. Il piano viene
predisposto e procede valutando le possibilità offerte dal sito
a cui è destinata l’opera, le aspettative della committenza e
del contesto locale, la radicata e multiforme cultura del luogo, la
vocazione storica del territorio di pertinenza, le tradizioni
devozionali autoctone – ragion d’essere di quel raffinato inserto,
costituito dal ricamo ad intaglio evocante l’immagine di un arcaico San
Michele Arcangelo, alle prese con un demone del tutto singolare – e le
specifiche forme cultuali. Di suo il pittore inserisce l’alta
padronanza dei mezzi tecnico-esecutivi e il proprio bagaglio
interpretativo, che necessariamente deve fondare le basi su una solida
e sostanziata visione del mondo.
Il progetto poi prevede un’articolata indagine, che dagli aspetti
generali man mano scende ai particolari, per poi ricomporli
nell’assieme. La generosa attenzione dell’artefice si è quindi
rivolta all’elaborazione di singole figure o oggetti, utilizzando lo
strumento conoscitivo del disegno, indispensabile per comprendere la
reale natura di corpi ed elementi dislocati nello spazio. I primi studi
generali mostravano l’individuazione di figure, colte in gesti e
attitudini varie, quasi a voler suggerire una dinamica e una tensione
interni. Poi tutto è stato regolato da fondanti scelte di
impaginazione. Il lavoro dell’uomo e della donna viene inteso come
valore eterno, sempre necessario. In poche parole senza tempo, o almeno
fuori dallo scorrere della temporalità storica. I gesti stessi
diventano immutabili e l’immagine deve palesare, quasi ostentando, la
ritualità dell’agire. Da qui la soluzione iconica adottata dal
pittore e l’apparente percezione di dinamica bloccata, che si coglie da
un primo approccio del testo pittorico. I personaggi dispiegati nei
primi piani rinviano ad una umanità intesa come categoria
soprastorica, o semmai quale memoria di una recondita età
dell’oro, apportatrice delle più nobili consuetudini e delle
più consone usanze, comuni all’uomo mediterraneo di tutti i
tempi. Quelle figure nude, pur nella diversità delle attitudini,
richiamano alla mente celebri ignudi, collocati sui piani più
distanti, riscontrabili in alcuni dipinti intrisi di cultura
neoplatonica – basti pensare alla Madonna con il Bambino di
Luca Signorellidella Galleria degli Uffizi a Firenze e al cosiddetto Tondo
Doni michelangiolesco nel medesimo museo – dove la lontananza
allude ad un’età remota e irraggiungibile. Però nella
grande tela di Pasquale Restuccia l’aureo tempo prende il sopravvento,
si impone come soggetto ineludibile, occupa finanche il primo piano e
relega l’uomo della storia – il corteo di personaggi in lontananza, che
vuol rievocare le lotte contadine nel secondo dopoguerra – a spazi
subalterni.
Il carattere iconico dell’opera si accompagna ad una palese
sobrietà dei mezzi pittorici impiegati, con la conseguente
consapevole rinuncia di qualsiasi esteriore impronta di
sensualità nel costituire i corpi. Certamente a tale risultato
avrà contribuito la conoscenza, negli anni maturata
dall’artefice, della essenziale pittura di Puvis de Chavannes.
Però solo attraverso la calibratura degli elementi strutturali,
attivata con la prolungata indagine grafica, il pittore è
pervenuto al maggiore equilibrio delle parti con il massimo della
sobrietà formale possibile e accettabile.
A chi ha conosciuto in altre circostanze la pittura di Pasquale
Restuccia potrebbe palesarsi un’apparente diversità nella
risultanza pittorica, ma in realtà poco è cambiato
rispetto alla produzione precedente – mi riferisco a dipinti allegorico
mitologici, paesaggi e quant’altro – o comunque degli ultimi anni, se
non forse una maggiore attenzione per l’intrinseca luminosità
della materia pittorica, assecondando però una tendenza in
continuo atto nella più recente stagione figurativa del pittore.
Per il resto, come ho già sostenuto in altra sede presentando la
morfologica essenza di alcuni suoi paesaggi, il rinvio a una dimensione
atemporale - connotata da immagini archetipe e significanti –
costituisce un dato peculiare nell’opera di Restuccia.
Quel che invece si rivela in tutta la sua consistenza è la
dinamica progettuale, evidenziata in dettaglio nel presente catalogo.
Si impone a questo punto una dovuta riflessione sul ruolo che il
progetto deve assumere nel campo della prassi figurativa. Viene da
pensare, di fronte all’ampia superficie dispiegata, alle titaniche
imprese compiute da artisti del passato. Basti ricordare la
celeberrima Zattera della Medusa di Théodore
Gericault, opera preceduta ed accompagnata da una moltitudine di studi
di piccolo formato, ora utili per ricostruire la genesi strutturale di
una pietra miliare per la storia dell’arte europea. Il progetto oggi,
come un tempo, deve saper veicolare tutte le istanze - precedentemente
menzionate - espresse dalla committenza, dal contesto di appartenenza e
dal medesimo artefice. L’opera finale costituisce il conseguente
approdo di una lunga ricerca, tendente a risolvere con sempre maggiore
puntualità problemi di ordine formale, iconografico e
comunicativo. Nel caso di Pasquale Restuccia l’obiettivo essenziale era
rappresentato dalla realizzazione di una grande superficie dipinta, del
tutto autosufficiente nel soddisfare le specifiche esigenze di immagine
della comunità di Rombiolo. Il lavoro del pittore andava
però preservato nella sua interezza e complessità,
recuperando gli strumenti che avevano consentito un’elaborazione
tutt’altro che semplice. Pur nel breve tempo di un’esposizione era
necessario garantire alla pubblica fruizione la conoscenza dei percorsi
ideativi ed escutivi. Così è nata l’idea di presentare la
vasta tela attraverso un catalogo, contenente in sequenza schizzi,
studi e disegni utilizzati in fase realizzativa. Diviene così
possibile risalire dal manufatto compiuto all’idea di base, attraverso
le non poche alterazioni, le modifiche o i ripensamenti. Il progetto
complessivo svela, in tal modo, tutti i suoi retroscena e rivela
l’autentica identità culturale dell’artefice.
In un certo senso la grande tela elaborata da Pasquale Restuccia
potrebbe costituire un significativo precedente. Difatti negli ultimi
tempi le esposizioni d’arte – se così è necessario
denominarle per intendersi – soffrono spesso di una certa mania di
grandezza, laddove ambiziosi e pretenziosi allestimenti, ingigantiti
oltre il limite tollerabile, costituiscono causa di fraintendimenti e
di confusione complessiva. L’idea di concentrare l’evento espositivo su
un unico percorso ideativo, sfociante in una sola ma articolata
risultanza figurativa, potrebbe rappresentare l’occasione per formulare
progetti chiari, efficaci e di più decisivo impatto. La
qualità della proposta soppianterebbe così le
disorientanti soluzioni in termini quantitativi, spesso esibite
nell’ambito di manifestazioni settoriali dal carattere pubblico o
meno.
L’opera in questione si pone senz’altro come un tassello estremamente
importante nella carriera pittorica di Pasquale Restuccia. Non mancano
al suo attivo realizzazioni su vasta scala, ma nulla di precedente
appare lontanamente paragonabile alla volontà, espressa
nell’attuale occasione, di pervenire alla sostanziale formulazione di
un’immagine-icona, che possa rappresentare da qui ai prossimi tempi la
specificità della comunità di Rombiolo, in un terreno
dove storia, cultura e tradizione si fondono nella dimensione
più consona al mito.
David Frapiccini